Dare colore ad una realtà spirituale. Questa è l’impresa che Leonildo Bocchino ha affrontato con consapevole baldanza sportiva.
Genius Loci è, peraltro, non soltanto una fortunata sintesi (è latino, non per niente) di un concetto astratto che si deve fare tangibile (se non visibile) nelle azioni. Il Nume tutelare non si vede, ma lo si avverte con le sensazioni di una fede.
Ebbene, Leonildo Bocchino ricorre alla pittura per dare sostanza visibile ad una idea.
Pittore ormai esperto, padrone degli effetti che i colori ci rimandano da una tela o da una tavola, Bocchino realizza con Genius Loci un caleidoscopio che chiede ad altre espressioni artistiche di inserirsi ed integrarsi. Genius Loci è un’opera artistica che si può godere nella sola “sezione” scenografica, proponibile nella sola contemplazioni dei quadri. Ma è anche l’anima di una composizione alla quale possono concorrere altri attori, attraverso altre varietà espressive (musica, recitazione, teatro).
La pittura di Leonildo, però, non è semplice arredo decorativo.
Dalla sua tavolozza discende un filo conduttore, che non potrà mai essere nascosto.
Tutt’altro. La pittura di Leonildo conosce soggetti diversi, ma ha una connotazione immancabile: nel senso che si trova in ogni suo lavoro.
È la luce.
Anche nella rappresentazione di un fitto bosco, v’è la lama di una luce che penetra l’ombra. Non è la luce della tavolozza, è la luce come soggetto, componente essenziale della costruzione pittorica.
Sarà una “firma” della personalità positiva, ottimistica, costruttiva dell’artista. Certo è che la sua fede nella vita, in questo misterioso compiersi quotidiano presso ogni essere abitante la terra, trova nella luce un riferimento preciso e irrinunciabile.
In fondo non ci sarebbe vita sulla terra senza la luce. E il Genius Loci è, per l’appunto, lo Spirito del Luogo, lo spirito di tante vite che formano un luogo, che è a sua volta la casa, il borgo, la campagna, la città.
Qualcuno si è proposto come “luce del mondo”: Leonildo afferra un pezzo di quella luce e ne proietta sulla tela una stimmate.
L’artista scansa la fatuità di certi esibizionismi di successo. Punta a scuotere i sentimenti del “fruitore”, affinché colga la luce, per riconciliarsi con il mistero della vita.
I lavori di Leonildo proposti nell’Evento Artistico “Genius Loci” rappresentano un viaggio nelle emozioni vere, le emozioni che scandiscono la vita!
Un percorso ben articolato di immagini che accompagnano lo spettatore, aiutandolo ad entrare lentamente nel “luogo”, nell’ambiente, quello più autentico, quello tenuto sotto stretto controllo dallo “spirito del luogo”, da quel guardiano ancestrale, attento, premuroso che osserva nel tempo le modifiche del territorio, le variazioni che intervengono con il passare degli anni, senza alterare mai l’elemento primordiale, l’essenza tipica dei nostri contesti, l’anima mundi della nostra realtà, di questa entità viva che plasma coloro che continuamente interagiscono, delineando i caratteri indelebili, unici, che rappresentano l’identità profonda dei nostri luoghi.
Comprendere i luoghi, penetrare i paesaggi per cogliere la vita, dalle origini ad oggi, che anima questi ambienti per disegnare le storie di microcosmi inseriti nella storia generale di un’umanità in continua evoluzione, ma fondamentalmente sempre la stessa, è il fine ultimo che vuole perseguire l’artista riproducendo luci, colori, essenze, profumi del mondo che ci circonda.
L’intero percorso è un racconto emozionante che narra la storia della vita attraverso immagini particolari, scorci tipici, aspetti reconditi, cromature insolite che l’artista crea con l’obiettivo di provocare emozioni forti, in grado di sospingere il fruitore ad entrare in sintonia con lo spirito del luogo, perché chiamato a partecipare ad un evento eccezionale: la nascita della vita, la scintilla creatrice.
Si percepisce la rielaborazione minuziosa dei particolari, che diventa amore profondo per la creatura che sta plasmando, cura premurosa per arrivare, segno dopo segno, a cesellare l’immagine con un lavorio costante, in continua evoluzione, in perenne modificazione/cambiamento, che in fondo non è altro che la metafora della vita che, giorno dopo giorno, segna, cambia, modifica, altera i colori iniziali per restituirli poi più vivi, deforma i tratti primordiali per poi ridefinirli con precisione, decompone e destruttura l’immagine di un tempo per elaborarla e riprodurla con forza, con vigore, con una grandezza nuova che va oltre, oltre le rovine, oltre la storia, oltre il tempo, oltre la vita.
Così, grazie al lavoro accurato di riscoperta del “luogo”, attraverso il racconto fissato su tele minuziosamente “scolpite”, riempite di colori, segni, tratti, linee, spessori, asperità che conferiscono alla grana/trama del tessuto una vitalità da cui si percepisce un cuore pulsante che anima i soggetti, Leonildo ci accompagna in un mare di colore dove i fiori di campo sembrano uscire dal quadro per venirci incontro, per avvolgerci con la loro semplicità ricercata, inondandoci di un profumo che si espande e impregna la tela. La carrellata di immagini si snoda attraverso paesaggi disegnati dalla luce, in cui il Genius ci racconta la tradizione e ci conduce sommessamente nei meandri più nascosti della memoria. Il racconto continua mettendo in evidenza radici, arbusti, tronchi, elementi della natura resi vivi dalla luce che non consente al “nero” di fare capolino, le sfumature che danno spessore e profondità sono il verde scuro del sottobosco, il blu della notte, la nuance del blu Parigi per contrastare la luce che abbaglia, resa sempre più accesa dai rossi e gialli con cui Leonildo racconta l’uomo nella sua pienezza, descrive l’attaccamento alla vita con le radici profondamente inserite in una scarpata per mantenere solido il rapporto con il suolo.
Con pennellate impressioniste vengono fotografati gli angoli più suggestivi dei paesi vicini, viene tracciato lo skyline di un mondo pieno di sinestesie, colori e odori, viene ritmato il senso della vita che fluisce e fa vibrare il quadro, come se dai colori nascessero sonorità nuove che fanno sentire la particolare armonia di questi luoghi. Il ritmo continua a permeare i quadri in cui il tratto fine rappresenta il tentativo di far sentire il suono della vita, il momento creativo, il suono della luce che abbaglia la vittima, la stordisce, l’avvolge nella ragnatela e la offre in pasto.
Poi ancora suoni, ma di campane, di bambini, di giochi antichi, di segni che ricordano il potere o la forza travolgente della fede. E lontano dai centri abitati risuonano le tracce degli avi, i segni dei Sanniti, poi una musica che brucia e avvolge la vita in un incendio di sentimenti. Le pennellate continuano a dare vita alle foglie, le sostengono, le fanno emergere dalla tela, si può godere della vita e il quadro stesso vibra, ha la musicalità di uno strumento a percussione, che riporta ogni cosa al ritmo primordiale: punti, linee, fino all’infinito.
La vita si trasforma in volo, un volo di farfalle, tra petali di rose che cambiano continuamente, evolvono, modificano colori e fattezze, come accade nella vita, trasformano il loro aspetto con un lavoro costante, con cui l’artista entra ed esce, poi ritorna sulla tela e plasma il segno e il disegno, senza portarlo mai a compimento, lasciandolo sempre così, mai compiuto, in modo tale che ognuno, guardandolo, possa animarlo con una vita sempre diversa, sempre nuova, la sua!
Il racconto finisce su un muro, con un’ombra che attraverso il rosso vivo, marcato, fa affiorare la vita, mentre i gialli e i rossi riempiono la tela e pervadono l’anima.
Il nostro viaggio in compagnia del Genius Loci, intanto che volgiamo al termine, ci prende e coinvolge, perché risulta vero, caratterizzato da aspetti materici, dalla ruvidità degli elementi, dalla forza delle pennellate che raccontano in piena libertà la natura e la vita in continuo cambiamento.
In conclusione emerge un lavoro prezioso che lascia trasparire la forza della vita, la carezza delicata per la creatura in costante evoluzione, le rifiniture inferte con colpi decisi che accompagnano con cura la realtà che scorre, che fluisce lentamente, giorno dopo giorno, sotto l’occhio vigile dell’attento custode, il Genius Loci, l’ARTISTA.
Siamo nel V libro dell’Eneide. Enea compie il sacrificio dovuto davanti alle spoglie mortali del padre Anchise. L’eroe vuole rendere grazie per l’arrivo in quella che lo ha accolto come una terra amica, la Sicilia, dove giacciono le spoglie mortali del padre Anchise. Dopo aver chiesto due capi di buoi per ogni nave, l’eroe si cosparge le tempie con mirto sacro. Raggiunto il tumulo, glorifica con due coppe di vino, due di latte, sangue sacrificale e fiori la terra e si rivolge al padre, rammaricandosi di averlo perso prima di essere riuscito a poggiare il piede sul suolo dell’Italia. Appare a questo punto un enorme serpente che, sbucando dai profondi recessi del sepolcro, cinge placidamente il poggio del tumulo. Il serpente, accuratamente descritto da Virgilio come tinto di chiazze cerulee sul dorso e cosparso di squame dorate, sguscia fra gli altari e striscia tra le suppellettili utilizzate per le libagioni, assaggiando anche le vivande apparecchiate per l’occasione. Dopo aver lambito con la lingua i sacri altari, tra lo stupore generale, la bestia si rintana nuovamente. Enea allora riprende con maggiore lena il rito, ma incertus, geniumne loci famulumne parentis / esse putet, «non sapendo se credere il serpente un ministro del padre o un genio del luogo» (Aen. V 95-96). Ecco il genius loci! Servio Mario Onorato, il grande commentatore di Virgilio della fine del IV secolo d.C., spiega il passo notando come nullus … locus sine genio, non vi è luogo senza un genio, e che questo è spesso rappresentato come un serpente. Per corroborare ulteriormente l’affermazione, il commentatore riporta il passo di un altro poeta della latinità, Persio, per dimostrare che il disegno di una coppia di serpenti poteva contraddistinguere qualsiasi luogo come messo sotto la protezione di uno spirito guardiano (Serv., ad Aen. 5, 95; il passo di Persio citato da Servio è tratto dalla I Satira, vv. 112-114).
Lo storico dell’antichità J. Bodel ha icasticamente e lucidamente osservato: «Qualsiasi cosa creata dalla natura, o, in contesti analoghi, dall’uomo, poteva essere concepita come capace di avere non solo un’essenza fisica ma anche una spirituale nata con la creazione: il genius. Tutela – come concetto sia di scopo più ampio che indipendente, a volte, da un particolare individuo o luogo – non era dunque un derivato ma una controparte del genius». L’affermazione è fortemente debitrice nei confronti di un’altra testimonianza proveniente dal mondo antico, quella del grammatico Censorino vissuto nella seconda metà del III secolo d.C., che nell’opuscolo De die natali, dedicato al patrono Quinto Cerellio come regalo di compleanno e giuntoci purtroppo incompleto, osserva: Genius est deus, cuius in tutela ut quisque natus est vivit. Hic sive quod ut genamur curat, sive quod una genitur nobiscum, sive etiam quod nos genitos suscipit ac tutatur, certe a genendo Genius appellatur (De die natal. 3, 1). Il genius, in queste affermazioni, emerge come la forma animata dell’insieme fisico e morale di ciò che è appena nato. Secondo Censorino, il genius è detto così «o perché si assicura che nasciamo, o perché nasce insieme a noi o addirittura perché ci aiuta e si prende cura di noi una volta che siamo nati – e comunque sia è chiamato genius da ‘nascere’ (genendo)». Il genius, dunque, come categoria strettamente funzionale alla creazione di una identità e, quindi, come concetto che, applicato a un luogo, diventa una sorta di terminus entro cui irradiare una costruzione identitaria, dal «di dentro» al «di fuori».
In quanto forma animata dell’insieme fisico e morale di ciò che è nato, attribuire a un luogo un genius loci significa fare in modo che quel luogo passi dallo stato dell’assolutamente altro a quello dell’identitario e, quindi, come tale, a prodotto di uno sguardo inglobante e auto-definitorio. Definire un genius loci, dunque, significa proiettare all’esterno autodefinizioni del sé e
tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili, anche se il loro successo è chimerico.
Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che “fa tenere insieme” (a fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose».
I luoghi di Leonildo non sono utopie, nel senso che non si mostrano come luoghi di favole e di discorsi, non sono luoghi che vanno nella direzione del linguaggio e in quella della fabula; i luoghi di Leonildo sono eterotopie, bloccano le parole su se stesse, contestano ogni possibilità di grammatica, si affidano a chi li osserva e il genius, a sua volta, osserva chi lo guarda sorridendo delle sue sicurezze, soprattutto se colui che osserva considera ciò che vede una superficie rassicurante in quanto o solo perché ritenuta nota.
Vieni a trovarmi presso lo Studio d'Arte a San Giorgio del Sannio. Solitamente mi trovi impegnato tra tele e colori ma non ho un orario definito e quindi ti chiedo di contattarmi per fissare un incontro.